Diniego della Cittadinanza Italiana "per residenza" fondato sulla pericolosità sociale
E’ possibile che la cittadinanza italiana per residenza venga respinta per pericolosità sociale desunta automaticamente dalla condanna per il reato di guida in stato di ebbrezza?
Sul punto si è pronunciato il Consiglio di Stato con una recentissima sentenza: Consiglio di Stato, sez. III, 8 giugno 2023, n. 5626
Punto in sintesi della decisione
È illegittimo il diniego della cittadinanza italiana “per residenza” fondato sulla pericolosità sociale presupposta automaticamente dalla sussistenza di una condanna per il reato di guida in stato di ebbrezza (art. 186, co. 1, CdS), condanna successivamente estinta.
La sentenza completa con le motivazioni del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.
sul ricorso numero di registro generale 3740 del 2023, proposto dal sig. -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato OMISSIS, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,
contro
il Ministero dell’Interno e l’Ufficio Territoriale del Governo di Modena, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. -OMISSIS-, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno e dell’Ufficio Territoriale del Governo di Modena;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nella camera di consiglio del giorno 25 maggio 2023, il Cons. Ezio Fedullo e uditi per le parti gli avvocati come da verbale;
Dato atto a verbale della possibile definizione della controversia con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO E DIRITTO
1. La controversia verte sulla legittimità del decreto del Ministro dell’Interno, emesso in data 14 marzo 2018, recante il diniego di concessione della cittadinanza italiana, richiesta dall’odierno appellante ai sensi dell’art. 9, comma 1, lettera f), della legge n. 91 del 5 febbraio 1992 con istanza presentata in data 9 giugno 2015.
Il provvedimento reiettivo scaturisce dalla constatata sussistenza, a carico del medesimo, di pregiudizi di carattere penale, individuati:
– nel decreto penale del G.I.P. presso il Tribunale di Modena del 13 marzo 2009, recante condanna per guida in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche ex art. 186, comma 1, d.lgs. n. 285 del 30 aprile 1992, commesso il 7 dicembre 2007;
– nella denuncia all’Autorità Giudiziaria in data 16 marzo 2008 della Stazione Carabinieri -OMISSIS- – Modena per i reati di cui agli artt. 581 c.p. (percosse), 594 c.p. (ingiuria) e 612 c.p. (minaccia).
2. Il T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, Sez. V-bis, con la sentenza appellata -OMISSIS- del 10 gennaio 2023, ricostruita la cornice normativa, sistematica e giurisprudenziale in cui si colloca il potere di concessione della cittadinanza italiana e delineati i relativi limiti all’esplicazione del sindacato giurisdizionale, ha rilevato, “con specifico riferimento al reato di guida in stato di ebbrezza”, che esso integra “una fattispecie che, pur se contravvenzionale e non grave con riferimento alla pena edittale, oltre a provocare un forte allarme sociale, è connotata da un particolare disvalore rispetto ai principi fondamentali della convivenza all’interno dello Stato, in quanto suscettibile di mettere a rischio l’incolumità dei cittadini”, aggiungendo che “nel caso sub iudice detta condotta, si accompagna all’emersione di ulteriori elementi di controindicazioni rappresentata da una notizia di reato per le fattispecie, di cui agli artt. 581 c.p. (percosse), 594 c.p. (ingiuria) e 612 c.p. (minaccia), anche se non ha avuto conseguenze processuali per remissione di querela, su cui il ricorrente nulla deduce”.
Ha altresì evidenziato il giudice di primo grado che “il diniego deve ritenersi fondato su detto ulteriore elemento ostativo, che, in mancanza di contestazioni specifiche, non essendo interessato dal presente vaglio giurisdizionale, assicurerebbe al provvedimento (in quanto plurimotivato) di superare comunque la “prova di resistenza”.
Quanto al sopraggiunto provvedimento di estinzione, ha osservato il T.A.R. che esso è irrilevante “in linea con l’orientamento costantemente espresso dalla giurisprudenza, secondo cui i provvedimenti di riabilitazione, estinzione della pena e persino i provvedimenti collettivi di clemenza non incidono sulla capacità dell’Amministrazione di negare il richiesto status civitatis, perché, al contrario, confermano l’esistenza di un fatto storico adeguatamente accertato e sanzionato dal Giudice Penale, contrario alle regole proprie della Comunità nazionale, consentendo poi l’accesso a misure di ripristino e/o alternative che, sebbene inibiscano la pienezza della sanzione penale, non obliterano la capacità valutativa dell’Amministrazione in sede di accertamento, prognostico e complessivo, dei presupposti di concessione della cittadinanza”.
3. La sentenza suindicata costituisce oggetto dei motivi di appello proposti dall’originario ricorrente, il quale lamenta essenzialmente che l’Amministrazione, obliterando l’intervenuta estinzione del reato per il quale è stato condannato, non ha compiuto una valutazione congruamente motivata in ordine all’adesione del medesimo ai valori fondanti la comunità nazionale della quale aspira a far parte, sulla scorta di tutti gli elementi all’uopo rilevanti, compresa l’effettiva gravità del reato contestato.
Si oppone all’accoglimento dell’appello l’Amministrazione appellata.
4. L’appello è meritevole di accoglimento.
5. Giova premettere che il provvedimento di diniego di concessione della cittadinanza italiana impugnato in primo grado si fonda sulla posizione penale dello straniero richiedente, risultando a suo carico un precedente penale rappresentato dal decreto di condanna del G.I.P. presso il Tribunale di Modena del 13 marzo 2009 per guida in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche ex art. 186, comma 1, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, commesso il 7 dicembre 2007.
Non assume invece rilievo autonomamente giustificativo del provvedimento impugnato, a differenza di quanto ritenuto dal T.A.R., la denuncia all’Autorità Giudiziaria in data 16 marzo 2008 della Stazione Carabinieri -OMISSIS- – Modena per i reati di cui agli artt. 581 c.p. (percosse), 594 c.p. (ingiuria) e 612 c.p. (minaccia), oggetto di successiva remissione di querela, facendo l’Amministrazione discendere la statuizione reiettiva esclusivamente dal disvalore sociale attribuito alla suddetta condanna.
6. Ciò premesso, il tema centrale del presente giudizio, come innanzi delineato, non giunge per la prima volta all’attenzione del giudice di appello, essendosene già occupato, con riferimento ad una fattispecie non dissimile, con la pronuncia di questa stessa Sezione giurisdizionale n. 1837 del 20 marzo 2019, conclusiva di un giudizio nel quale ugualmente si dibatteva della legittimità di un decreto ministeriale che aveva respinto la domanda volta ad ottenere il riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della l. n. 92/1991, facendo leva sulla condanna alla pena pecuniaria (nella specie, € 3.078,00 di ammenda) irrogata per un risalente episodio di guida in stato di alterazione dovuta all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, ai sensi dell’art. 187, comma 1, d.lvo n. 285/1992, rispetto alla quale era anche intervenuta una pronuncia di riabilitazione.
La Sezione, premesso che la suindicata fattispecie di reato non rientra in alcune delle ipotesi ostative di cui all’art. 6, comma 1, l. n. 92/1991, essendo pertanto necessaria una valutazione in concreto del fatto di reato, ha osservato, al fine di smentire la correttezza di quella operata dall’Amministrazione (la quale ne aveva tratto la conclusione della mancata integrazione dello straniero nel contesto nazionale), che “la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope, pur costituendo una condotta illecita rispettivamente sanzionata a livello contravvenzionale dagli artt. 186 e 187 del codice della strada, non può ritenersi in sé ostativa al riconoscimento della cittadinanza, soprattutto ove sia intervenuta riabilitazione, se la condotta, per le concrete modalità della condotta e per tutte le circostanze del caso, non denoti un effettivo sprezzo delle più elementari regole di civiltà giuridica, ma costituisca un isolato episodio, non ascrivibile a deliberato, pervicace, atteggiamento antisociale o ad una ostinata, ostentata, ribellione alle regole dell’ordinamento”.
Ha altresì evidenziato la Sezione che “sul punto non si può non ricordare, in conformità all’orientamento assunto dalla Suprema Corte in relazione alla fattispecie dell’art. 186 del d.lgs. n. 285 del 1992 (con ragionamento estensibile, però, anche alla successiva fattispecie contravvenzionale dell’art. 187), che la condotta della guida in stato di ebbrezza – o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti – è tratteggiata in modo categoriale “nel senso che il legislatore individua i comportamenti contrassegnati – alla stregua di informazioni scientifiche o di comune esperienza – dall’attitudine ad aggredire il bene giuridico che si trova sullo sfondo, da individuare nella vita e nell’integrità personale” (Cass. pen., sez. IV, 3 dicembre 2018, n. 54018)”, aggiungendo che “una volta accertata la situazione pericolosa tipica e l’offesa ad essa sottesa, però, resta sempre uno spazio per apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato e al solo fine della ponderazione in ordine alla gravità dell’illecito, quale sia lo sfondo fattuale nel quale la condotta si inserisce e, di conseguenza, il concreto possibile impatto pregiudizievole”.
La Sezione ha quindi evidenziato che “non può dunque la pubblica amministrazione, nel denegare il riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione richiesto ai sensi dell’art. 9 della l. n. 92 del 1991, fondare il proprio giudizio di mancato inserimento sociale sull’astratta tipologia del reato – la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope – e sulla sua pericolosità, astratta o presunta, senza apprezzare tutte le circostanze del fatto concreto e, benché la sua valutazione sia finalizzata a scopi autonomi e diversi da quella del giudice penale che ha concesso la riabilitazione del condannato, non per questo essa può esimersi da una considerazione in concreto del fatto, delle sue modalità, del suo effettivo disvalore come anche della personalità del soggetto”.
Ha poi osservato la Sezione, per quanto di interesse ai fini del presente giudizio, che “l’amministrazione, nel riconoscere la cittadinanza ai sensi dell’art. 9 della l. n. 91 del 1992, è chiamata insomma ad effettuare una delicata valutazione in ordine alla effettiva e complessiva integrazione dello straniero nella società, ma non può limitarsi, pur nel suo ampio apprezzamento discrezionale, ad un giudizio sommario, superficiale ed incompleto, ristretto alla mera considerazione di un fatto risalente, per quanto sanzionato penalmente, senza contestualizzarlo all’interno di una più ampia e bilanciata disamina che tenga conto dei suoi legami familiari, della sua attività lavorativa, del suo reale radicamento al territorio, della sua complessiva condotta che, per quanto non totalmente irreprensibile sul piano morale, deve comunque mostrare, perlomeno e indefettibilmente, una convinta adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento, di cui egli chiede di far parte con il riconoscimento della cittadinanza”, evidenziando altresì che “se si prescinde dalle ipotesi ostative al riconoscimento della cittadinanza, contemplate dall’art. 6 della l. n. 92 del 1991, non è possibile però esigere dallo straniero, per riconoscergli la cittadinanza, un quantum di moralità superiore a quella posseduta mediamente dalla collettività nazionale in un dato momento storico, sicché il giudizio sulla integrazione sociale dello straniero richiedente la cittadinanza italiana, sebbene debba tenere conto di fatti penalmente rilevanti, non può ispirarsi ad un criterio di assoluta irreprensibilità morale, nella forma dello status illesae dignitatis, o di impeccabilità sociale, del tutto antistorico prima che irrealistico e, perciò, umanamente inesigibile da chiunque, straniero o cittadino che sia”, atteso che “un simile criterio, nella sua aprioristica purezza e in una visione eticizzante dello Stato portatore di una morale superiore ed escludente, implicherebbe l’impossibilità di ottenere la cittadinanza per il sol fatto di avere compiuto un reato, anche se non avente una concreta – concreta, si noti, e non meramente astratta o presunta – carica di disvalore morale o di pericolosità sociale per l’ordinamento giuridico”, per cui “si verrebbe a realizzare, in questo modo, un irragionevole chiusura della collettività nazionale all’ingresso di soggetti che, pur avendo tutti i requisiti per ottenere la cittadinanza, si vedono privare di questo legittimo interesse, attinente anche all’esercizio di diritti fondamentali, in assenza di un effettivo, apprezzabile, interesse pubblico a tutela della collettività, e per mere fattispecie di sospetto in danno dello straniero”.
7. Ebbene, deve ritenersi che le considerazioni fatte dalla Sezione con la sentenza citata si attaglino a fortiori alla fattispecie in esame, la quale ha ad oggetto un reato di gravità senz’altro minore rispetto a quello di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, sia da un punto di vista edittale (tanto è vero che solo per il reato di guida in stato di ebbrezza è prevista una graduazione della sanzione in corrispondenza del tasso alcolemico concretamente accertato), sia in relazione alla fattispecie concreta, essendo stato lo straniero condannato, con il predetto decreto penale di condanna, all’ammenda di soli € 760 (ben inferiore a quella di € 3.078 inflitta nella vicenda precedentemente esaminata dalla Sezione).
Come nella fattispecie decisa dalla Sezione con la sentenza citata, anche in questo caso, quindi, il Ministero dell’Interno dovrà rivalutare se il comportamento dell’odierno appellante, per le concrete modalità del fatto contravvenzionale (oggetto, peraltro, della intervenuta pronuncia di estinzione) sia concretamente indice di un mancato inserimento sociale e, quindi, di una non compiuta integrazione dello straniero nella comunità nazionale ovvero se, al contrario, simile comportamento, tenuto conto nel complesso della sua condotta di vita, della sua permanenza sul territorio nazionale, dei suoi legami familiari, della sua attività lavorativa e di tutti gli elementi ritenuti rilevanti a tal fine, non sia tale da denotare la sua mancata adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento giuridico, a cominciare dal principio personalistico e da quello solidaristico, compendiati nel valore posto “al vertice dell’ordinamento” della dignità umana.
Preme rilevare che assumono significativo rilievo, nel caso di specie, lo stabile inserimento lavorativo dello straniero, come si evince dal relativo estratto contributivo, il quale è espressivo di un atteggiamento di condivisione dei valori solidaristici propri del nostro ordinamento costituzionale avente una significatività sicuramente maggiore, in termini comparativi, di un risalente e circoscritto episodio di disattenzione verso gli stessi, quale si è manifestato con la condotta contestata in sede penale: ciò non senza osservare che l’intervenuta pronuncia di estinzione del reato, di cui l’Amministrazione non ha erroneamente tenuto conto nonostante fosse stata rappresentata dallo straniero nell’ambito del contraddittorio procedimentale, denota la sopravvenuta perdita di interesse dello Stato-comunità, secondo le norme dell’ordinamento che ne traducono concretamente i valori fondativi, verso un comportamento criminoso commesso in epoca remota e sanzionato in chiave meramente pecuniaria, della quale la stessa Amministrazione, pur nell’ambito della diversa valutazione dei presupposti per il riconoscimento della cittadinanza italiana, non può non tenere conto.
8. L’appello, in conclusione, deve essere accolto così come, in riforma della sentenza appellata, il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, con il conseguente annullamento del provvedimento con esso impugnato, salve le ulteriori valutazioni dell’Amministrazione.
9. La peculiarità dell’oggetto del giudizio giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Terza, accoglie l’appello e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ed annulla il provvedimento impugnato, salve le ulteriori valutazioni dell’Amministrazione.
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 maggio 2023 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco, Presidente
Pierfrancesco Ungari, Consigliere
Paolo Carpentieri, Consigliere
Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore
Antonio Massimo Marra, Consigliere
SCARICA LA SENTENZA
Scarica e stampa la Sentenza n.n. 5626, pronunciata dal Consiglio di Stato, sez. III, l’8 giugno 2023.
Questo articolo è stato scritto da:
Avvocato del Foro di Forlì-Cesena • Fondatore e Titolare del sito avvocatofrancescolombardini.it
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